Micol al Kindergarten

Micol aveva lasciato la grande pianura piatta quando aveva quattro anni seguendo i genitori a Bolzano, andando ad abitare in un minuscolo paese che non distava molto dalla città.
Era una tipica casa di montagna, parte in muratura e parte in legno con un piccolo fienile dove suo padre teneva un fuoristrada, e con un balcone di pino dove sua madre esponeva da aprile ad ottobre splendidi pelargonium rosso fuoco. Stava adagiata sul limitare del paese ai margini di un grande bosco che si espandeva misterioso verso il basso ed era circondata da un minuscolo giardino. Davanti e di lato c’erano arbusti bassi resistenti al freddo integrati durante la bella stagione da piante fiorite e colorate, mentre dietro un minuscolo orto procurava insalatina fresca e carote giganti deliziose e sugose.
Micol adesso era vecchia ed era tornata nella città della grande pianura piatta assolata e polverosa, ma nei suoi occhi conservava le istantanee di quando era bambina.
Rivedeva l’interno della casa dove durante i lunghi inverni stavano accoccolati intorno alla Kucheloefen, la grande stufa di maiolica posta nel centro della sala da pranzo, con le mattonelle bianche in ceramica di Thun decorate di fiori azzurri, con le ruvide e scomode panche di legno poste sui fianchi e il letto morbido e caldo sulla sommità.
Quello per tantissimi inverni fu la sua culla caldissima ed accogliente, dove cullava i sogni col dolce tepore della Stube. Ancora adesso sentiva nelle ossa vecchie e stanche il calore della legna di abete che bruciava silenziosa e crepitante nella grande bocca. Allora le sembrava tutto enorme: il letto, le panche di legno, la bocca nella quale suo padre introduceva i grossi ciocchi da bruciare, le assi che le impedivano di cadere giù.
Erano sensazioni strane le sue, perché era stata catapultata in un mondo diverso ed irreale. Gli altri bambini parlavano uno strano linguaggio che lei non capiva a parte Konnie, un ragazzino più vecchio di lei di un paio d’anni, che in un italiano stentato e pieno di errori cercava di comunicare. Poi l’ingresso alle Marcelline cambiò l’ immagine delle visioni e capovolse un mondo fatto di solitudine per l’incomunicabilità delle parole ed affidato al solo gesticolare.
Tutti i giorni suo padre la portava a Bolzano alla Kindergarten, dove trovava all’entrata la mitica Frau Leone, una signora non più giovanissima dall’aspetto imponente, perché ai suoi occhi anche lei era enorme.
La prima volta fu terrificante, perché era l’unica bambina che non conosceva una sillaba di tedesco, mentre l’energica Frau Leone la guardava come una bestia rara da conoscere e decifrare. Micol si sentiva confusa, impacciata, osservata da mille sguardi ironici e canzonatori, perché non sapeva dire “Willkommen, Frau Leone” oppure non comprendeva quando l’imponente Frau Leone la chiamava “Micol, kommt hier!”. Eppure leone era qualcosa che aveva sentito ancora da mamma e papà, che le ricordava una belva feroce dalla grossa criniera, ma adesso era una signora austera che non parlava per nulla l’italiano.
A stento aveva trattenuto le lacrime, doveva farsi forza, come si era raccomandata la mamma prima di salutarla quella mattina, e mostrare dignità e fierezza per essere l’unica italiana. E lei sopportò l’essere esclusa dai giochi e dal salmodiare le filastrocche, ma senza perdersi d’animo cercò tutto il primo giorno di farsi accettare, di intrufolarsi nei gruppetti, di fare amicizia, insomma di fare quello che fanno tutti i bambini: giocare e cantare in gruppo.
Quando suo padre l’accolse all’uscita liberò le lacrime che aveva trattenuto fino allora, mentre lui la faceva volare tra le braccia.
Nei giorni seguenti l’incubo era scendere dal letto, perché sapeva che l’avrebbe aspettata una nuova dura giornata di incomprensioni e stilettate pungenti, attenta ad osservare i movimenti dei compagni per ripetere gesti ed imprimere parole delle quali non comprendeva il significato.
Poi giorno dopo giorno con la tenacia e la testardaggine ereditata dalla madre cominciò a decifrare quel linguaggio ostico e dai suoni gutturali tanto diversi dalle parole conosciute fino a quel momento e finalmente poteva unirsi agli altri coetanei per recitare le Kinderreim, le brevi filastrocche che accompagnavano i giochi quotidiani.
 
Eins zwei drei vier fünf sechs sieben,
eine alte Frau kocht Rüben,
eine alte Frau kocht Speck
und Du bist weg.
 
Wenn die Kinder in den Gassen
wieder Kreisel tanzen lassen,
hopsa und juchheirassa !
ja, dann ist der Frühling da.

 
Ene, mene, miste,
es rappelt in der Kiste.
Ene, mene, meck,
und du bist weg.

 
Adesso non era più il brutto anatroccolo che stava a bocca aperta cercando di captare qualche segnale che giungeva sempre distorto alle sue orecchie, mentre i compagni sicuri che non comprendesse dicevano “italienische Dummenkopf!”. Aveva imparato a difendersi, rispondendo per le rime senza lasciarsi prevaricare.
Non era passato molto tempo dal quel primo giorno, quando era ormai una di loro, considerata e trattata con rispetto, perché aveva imparato in fretta il loro linguaggio, che le sembrava meno armonioso di quello che usava coi genitori,
Frau Leone era rimasta sorpresa dai suoi progressi in un tempo veramente breve, ricredendosi sulla possibilità che potesse sopravvivere in un ambiente tipicamente ostile verso gli stranieri.
Micol aveva capito che, se non  voleva essere emarginata, doveva sfoderare tutta la grinta che possedeva. E lo fece senza economie.

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2 risposte a “Micol al Kindergarten”

  1. Tu hai preso una decisione in termini letterari, io lo avverto. Il tuo stile si è come levigato, illuminato da un nuovo maquillage. Trovo vi sia una elegante fluidità (non che non ci fosse prima), ma probabilmente sono le ambientazioni che aggiungono un non so che di importante alla tua scrittura. E non solo:il garbo con cui passi dalla descrizione a dei momenti di autentica tenerezza.
    Molto molto bello.

  2. Jul, ti ringrazio per le bellissime parole usate. Forse hai ragione sono riuscito a rendere più scorrevole quello che passa nella testa. Questa miniserie di quattro racconti brevi (l’ultimo non l’ho pubblicato) mi sembra ben riuscita e mi fa piacere di condividere questa sensazione con te.

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