Tutti i ricordi alla fine …

“Tutti i ricordi alla fine si cancellano. E poi restano i sogni. A quel punto, ormai soli, è a essi che affidi il fardello della tua vita. Presto non ricorderò più niente, niente a parte quella storia che tornava tutte le sere appena mi addormentavo. E’ diventata il ricordo più intimo e remoto. Risale forse all’epoca dei miei quattro o cinque anni. Scesa la notte, il buio s’infittiva nella stanza; chiudevo gli occhi e tutto ricominciava. Ero un bambino molto piccolo e uscivo di casa. Prendevo la via che portava alla scuola o fino a i giardini. Tutto era deserto. Una grande calma meravigliosa si era posta sul mondo. Nella luce di un giorno che stava finendo, camminavo a lungo ma senza fatica. Godevo della mia straordinaria leggerezza e della facilità con cui passavo tra le cose. Attraverso la città; le facciate grigie degli edifici..”

Questo era il mondo fantastico di Roberto, che si crogiolava dalla mattina alla sera in mille pensieri strambi e sognanti.

Era un ragazzone alto e magro, che frequentava l’università, dove stava seduto con lo sguardo perso nel vuoto a lezione. Prendeva appunti non della lezione che non ascoltava, ma dei suoi pensieri che sgorgavano frizzanti come la sorgente del torrente di montagna.

Riempiva l’enorme quaderno a quadretti dalla copertina con il viso buffo di un cartone giapponese, di cui non ricordava nemmeno più il nome, perché gli piacevano i grandi occhi sgranati e la bocca spalancata.

La sua scrittura minuta scorreva veloce sulla carta e riempiva fogli su fogli tra la curiosità dei compagni che lo osservavano stupiti a scrivere storie fantastiche.

“…Il cielo era plumbeo e tendeva al grigio sporco tanto da confondersi sull’orizzonte con le case. I pochi alberi spelacchiati intristivano la visuale, ma io vedevo il sole splendere sopra di me. Ero etereo, diafano come l’aria che respiravo. I miei occhi vedevano quello che gli altri non percepivano visivamente, penetrando i loro corpi e le loro menti. Captavo i pensieri più reconditi, come se fossi in grado di leggere dentro. Però spesso parlavano con una lingua sconosciuta, che veniva da lontano. Io mi beavo nella mia ignoranza perché questo mi appagava internamente.

Che importanza aveva leggere le preoccupazioni di Agnese, che non sapeva come arrivare a fine mese? Oppure conoscere le pene di amore di Ilaria, che litiga in continuazione con Giuseppe? Era bello sapere che potevo farlo, ma non lo facevo!…”

Roberto si chiedeva come aveva fatto ad arrivare all’università sempre immerso come era nell’aria rarefatta della ionosfera.

Quando a sei anni entrò nella scuola elementare delle suore, la sua testa era altrove, intento come era a pensare che poteva passare ovunque anche attraverso le porte.

“Roberto,” diceva la suora maestra “cosa stai scrivendo? Porta qua quel quaderno!”

E lui manco rispondeva, mentre continuava a scrivere. Alla fine dell’anno, la suora preside disse alla madre del bambino: “Sarà intelligente, saprà anche scrivere, ma lui non è presente con la testa. Forse è meglio che lo iscriva alla scuola pubblica. Lì riuscirà benissimo a scuola”.

Anna, la madre di Roberto, guardò rassegnata al peggio la suora preside, mentre diceva che lui rimaneva con il cucchiaio della minestra a mezz’aria per tutto il tempo del pranzo senza ascoltare le suppliche sue e della nonna. “Cosa possiamo fare?” parlava sconsolata per l’atteggiamento del bambino “Non riusciamo ad indurlo a scendere sulla terra. Nella scuola pubblica riuscirà a non essere il dileggio dei compagni? Noi contavamo su di voi, ma adesso abbiamo capito che siamo soli nella nostra battaglia”.

Non andò meglio nella elementare Montessori, dove fu la croce e la delizia del maestro e dei compagni. Però lui era abilissimo e sempre pronto nelle interrogazioni. Tutti erano sempre a bocca aperta, perché Roberto sapeva scrivere e fare di conto meglio di tutti i compagni. “Come fa ad essere così bravo, se non ascolta, non partecipa alla vita della classe?” si domandava Bernagozzi, il maestro pelato e un po’ panciuto, che non sapeva se ridere o piangere per Roberto.

Alla media Tasso fu ancora peggio, perché scriveva solo sul quaderno col cartone giapponese e faceva atto di presenza alle 8 e 15, quando suonava la campanella di entrata. Poi spariva nel suo mondo fantastico popolato di cartoni e visioni dai volti familiari dei cartoni.

“… Certo sono nel mondo di Disney a cercare il cartone perduto. Paperino è simpatico, ma è troppo triste, perché perde sempre. Gastone mi sta antipatico perché la fortuna sorride sempre e solo con lui. Non riesco trovare un cartone simpatico e normale…”

Giuditta, compagna di banco rossa di capelli e dalla lingua sciolta, aveva provato a scuotere il mondo di Roberto, parlando in continuazione e domandando cosa scrivesse.

“Muh!” era l’unico mugolio di risposta e lei di rimando “Non parli? Sei muto? Eppure senti e hai scritto una montagna di fogli”.

L’anno dopo Giuditta chiese ed ottenne di andare in banco con Paolo, perché almeno quello parla ed ascolta.

I compagni erano terrorizzati al pensiero di finire in banco con lui, che biascicava solo “Buongiorno, ciao, mi chiamo Roberto F., , ho fame” e poche altre parole.

Essere nel suo stesso banco era la morte civile e il dileggio dei compagni.

Tutti chiesero di essere esonerati e di stare lontano dall’appestato, perché cosi veniva bollato a scuola.

Anche la media Tasso fu lasciata alle spalle con l’esame di terza media superato col massimo dei voti tra stupore ed incredulità di tutti.

Era indeciso tra il classico e lo scientifico, perché eccelleva in tutto, ma alla fine optò per il liceo scientifico Roiti.

Giuditta lo seguiva come un’ombra, anche se accuratamente evitava di pestare quella di Roberto. Era innamorata cotta di questo lungagnone dall’aria trasecolata che sapeva sempre tutto e non sbagliava un compito in classe. Le tentò tutte per farsi notare, ma forse sarebbe riuscita a commuovere il busto di Dante che troneggiava all’ingresso del liceo e non lui, che scriveva sempre in silenzio.

“Eppure è un bel ragazzo!” si diceva Giuditta “Però mi sembra tonto perché non mi degna di uno sguardo!”

Furono cinque anni di passione, poi alla fine convenne che non era il suo tipo e ripiegò su Fabrizio, un ragazzo meno interessante di Roberto, ma che era dotato di parola e sapeva pure baciare!

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9 risposte a “Tutti i ricordi alla fine …”

  1. Roberto è speciale, per certi versi, è un privilegiato. Con il tempo imparerà ad esprimersi anche con la voce, oltre che con i suoi scritti, e scoprirà che saper baciare non è solo un fatto tecnico…
    Un bel racconto, caro Orso!
    Un caro saluto,
    Rosalba

  2. Che bello questo racconto… mi ricorda molto la sottoscritta, con l’unica variante che a me piaceva anche fare la giullare di corte (un tempo…)
    un abbraccio

  3. Primavera…. potevo non dare un abbraccio a chi mi ha vegliato con me nelle lunghe notti buie? 😉

    Buona primavera Orso… che sia piena di luce…

    .:)(:.

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