Erano contenti per la lunga passeggiata e perché avevano capito che il loro rapporto travalicava la semplice amicizia pur non sapendo come potevano esternare queste sensazioni.
Pagato il fiaccheraio per la lunga corsa, Goethe prese la mano di Angelica e la baciò con passione, mentre si accomiatava da lei senza proferire parola.
A passo svelto si diresse verso piazza di Spagna, sparendo ben presto dalla vista della donna, che salita nello studio si abbandonò su un divano piangendo a dirotto.
“Ormai l’incanto è svanito e nulla più potrà ricreare l’atmosfera precedente. Sono stata troppo fredda nei suoi confronti e questo mi ha persa. Ahimè, come potrò finire il ritratto di lui?” disse ad alta voce tra i singhiozzi guardando il quadro appena abbozzato, che stava triste sul cavalletto “Che ne faccio di questa tela?”
Un bellissimo tramonto romano illuminava di rosso la stanza, creando effetti ottici e cromatici insoliti sulle pareti.
Angelica si riscosse e si asciugò le lacrime, si mise il mantello e si preparò ad uscire, quando sentì bussare alla porta.
“Chi è mai a quest’ora che bussa? Devo aprire e guardare chi è oppure fingere che qui non ci sia nessuno” pensava mentre qualcosa la incitava ad aprire l’uscio.
Il bussare si fece insistente, mentre le parve di udire la sua voce.
“Non è possibile!” pensò, “Se ne è andato! Forse la stanchezza della lunga passeggiata mi fa sentire qualcosa che non è. Devo aprire oppure no?”
Si avvicinò alla porta e con voce tremula chiese: “Chi è che bussa alla mia porta?”
“Sono Wolfgang. Apritemi, per favore. Vorrei scusarmi per essere stato un villano, andandomene senza salutarVi adeguatamente”.
Col cuore in tumulto e la mente offuscata dall’ansia aprì il battente della porta e lo vide lì immobile avvolto dall’ampio mantello bianco con l’immancabile capello a tesa larga in testa.
Angelica si precipitò fuori baciandolo sulla bocca, mentre il poeta la strinse a sé e la spinse con dolcezza, ma con fermezza dentro lo studio, chiudendo la porta.
Lei, senza opporre resistenza, si lasciò sfilare il mantello, che fu gettato su una sedia insieme a quello di lui e al suo capello, conducendolo all’ampio divano posto dinnanzi ad una finestra.
“Fromm sind wir liebende, still verehren wir alle Daemonen,
Wuenschen uns jeglichen Gott, jegliche Goettin geneigt.
Und so gleichen wir euch, o roemische Sieger!”
Goethe pronunciava queste parole mentre si accomodavano sul divano.
Angelica rapita si lasciava trasportare dai sensi e lo baciava con ardore, dicendo dolci parole amorose.
Così i due amanti, incuranti del buio incipiente, consumarono il rapporto carnale tra baci, sussurri appena accennati e dolci promesse di amore senza sentire né i morsi della fame, né il freddo pungente della stanza.
Era ormai sera inoltrata quando uscirono dallo studio avviandosi verso la trattoria per consumare la cena serale.
Entrati si sistemarono in un tavolo d’angolo appartato e discreto, lontano dagli altri commensali, mentre un grande frastuono sovrastava le loro voci. Erano suoni allegri ed alterati dalle abbondanti libagioni, mentre nel camino accanto ai due amanti la legna scoppiettava piacevolmente, riscaldando l’ambiente.
I loro cuori erano caldi, come i corpi, mentre i sensi erano appagati.
Parlavano sottovoce della giornata trascorsa, mentre lei ripeteva i versi che il poeta aveva declamato durante la passeggiata e nello studio.
Il poeta chiese all’oste della carta e una matita per trascrivere quelle rime che svanissero dalle loro menti.
Lei era felice per il rapporto amoroso appena consumato, essendo ormai da tempo che il suo corpo non aveva goduto delle gioie del sesso.
Tutti i dubbi erano svaniti e i timori per il tradimento compiuto si erano disciolti, lasciando il posto alla volontà di continuare questa relazione amorosa anche nei prossimi giorni, nelle settimane successive, finché la comunanza degli affetti non sarebbe cessata.
Angelica era talmente presa da quel fiume di pensieri straripante che faticava ad ascoltare Goethe e quello che le diceva.
Rispondeva a monosillabi, generando in lui stupore ed incredulità, perché non si aspettava una simile reazione, come se non ascoltasse le sue parole.
“Ob ich Dich liebe weiss ich nicht;
Seh ich nur eimal dein Gesicht,
Seh Dir in’s Auge nur einmal,
Frei wird mein Herz von aller Qual;
Gott weiss, wie mir so wohl geschicht!
Ob ich Dich liebe, weiss ich nicht.”
“Questa breve poesia l’ho composta quando avevo 21 anni e ora la dedico a Voi, che mi fate compagnia ed allietate la mia vista. Voi siete splendida e dolce, dalla personalità intensa e forte, come tanti amici comuni Vi avevano descritta”.
“E’ bella. Come s’intitola? O non ha nome?” chiese Angelica, “Siete veramente bravo ed ispirato nelle composizioni poetiche. Sapete dove cogliere i fiori del bello per il mio giardino!”
L’oste guardava di sottecchi i due amanti, che invece di gustare i suoi piatti parlavano fitto tra di loro in una lingua che non capiva. Aveva visto lui altre volte in compagnia di uomini e di donne, ma lei era un volto sconosciuto.
“E’ bella quella donna!” pensava l’oste appoggiato al bancone ben attento a correre per servire i commensali, “Chi sa da dove viene. E’ la prima volta che entra nella mia osteria. Ha un tocco di classe ben superiore a lui, che mi sembra più giovane. Però sono una bella coppia affiatata da come parlano e si guardano”.
Non avevano fame, toccando a malapena i cibi preparati per loro, perché essa era stata soddisfatta prima nello studio di Angelica.
La serata svolgeva ormai al termine e nella grande sala da pranzo erano rimasti solo loro e un paio di persone alticce per il molto vino bevuto, che parlavano a voce alta con toni striduli e impastati dal troppo bere.
Chiamato l’oste per pagare il conto, Goethe si alzò aiutando Angelica ad indossare il mantello e l’ampio capello ornato di fiori.
La donna accettò volentieri che il poeta l’accompagnasse verso la casa, perché la strada era mal illuminata da lampioni ad olio, che emettevano una fioca luce.
Come fantasmi scivolarono via lasciando una pallida ombra sui muri, finché giunti sull’uscio di casa si scambiarono l’ultimo bacio della giornata prima che il portone si chiudesse alle spalle di Angelica.
(parte settima)
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“Sono Wolfgang. Apritemi, per favore. Vorrei scusarmi per essere stato un villano, andandomene senza salutarti adeguatamente”:
però Goethe dovrebbe decidersi, vuol dare del “voi” o del “tu” ad Angelica?
Orso, mi è piaciuta molto la descrizione in chiusura:
“Come fantasmi scivolarono via lasciando una pallida ombra sui muri, finché giunti sull’uscio di casa si scambiarono l’ultimo bacio della giornata prima che il portone si chiudesse alle spalle di Angelica”.
Un caro saluto,
Rosalba
Cara Rosalba,
hai ragione quella frase contiene prima il Voi poi il Tu, ma è stato un errore, una distrazione perché anche il APRITEMI era APRIMI, che ho corretto, dimenticando di adeguare anche SALUTARTI.
Grazie per le belle parole ed un saluto affettuoso.
Orso
Insomma, Orso, non ci capisco più niente: “APRITEMI era APRIMI”? Ma quello non era giusto? Goethe dopo continua con l’uso del “voi”…
Però mi sembra meglio lasciare tutto così com’è, perché quando lui arriva concitato da Angelica, può essere normale che pensi a lei dandole del “tu”. In effetti, inizialmente ho pensato ad un tuo espediente per evidenziare lo stato emotivo di Goethe, una confusione voluta…
Bye,
Rosalba